Questo lungo articolo del professor Salvatore Minnella denuncia in maniera chiara e puntuale alcune inadempienze e inefficienze. Vissute, tra l’altro, in prima persona. Fa sentire autorevolmente la sua “voce”, esprime senza peli sulla lingua la sua indignazione. Punta il dito, documentando tutto fotograficamente, sul presidio sanitario di Serradifalco e “parla” della viabilità cittadina che va decongestionata. Con senso civico, inoltre, propone alcune soluzioni dettagliatamente. In modo palese ci fa capire che bisogna evitare le leggerezze che poi si tingono di irresponsabilità. Sono pericolose, come un virus: silente, invisibile, mobile, ma che fanno danni. Denunciare le distorsioni è giusto, quando le cose non vanno bisogna parlare e scrivere. Noi abbiamo il diritto e il dovere di far sentire quella “voce” forte, che documenta. Tutti, però, abbiamo il dovere di fare la nostra parte.
MICHELE BRUCCHERI
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Da tempo ho la possibilità di venire più volte l’anno a Serradifalco, dove trascorro le mie vacanze con parenti e amici. Ne sento la necessità. E tutte le volte, da serradifalchese “esportato” quale ormai mi reputo, tornando al mio paese natio colgo elementi nuovi (purtroppo pochi) e vecchi problemi coi quali provo testardamente a confrontarmi per trovare una soluzione. Trovo terreno favorevole nel Direttore di questa testata, Michele Bruccheri, che amichevolmente mi ascolta e m’incalza con giornalistica curiosità e poi mi ospita nelle pagine del suo giornale.
Pur dando atto che l’attuale Amministrazione comunale retta dal dinamico e volonteroso sindaco Leonardo Burgio abbia contribuito finora a rendere vivibili e decorose le piazze, le vie del centro storico e perfino le stradine meno frequentate, noto però che l’annoso problema del guano depositato da intere colonie di colombacci, non sia stato ancora efficacemente affrontato. Ne ho parlato di recente proprio con lui, a cui ho suggerito possibili soluzioni alla stregua di altre già adottate da amministrazioni comunali del nord Italia. La gravità di tale fenomeno purtroppo peggiora e mi sorprende che il Presidio Sanitario competente per territorio non abbia ancora avvertito l’urgenza di adottare misure idonee a fronteggiarla o, quantomeno, la sensibilità istituzionale di affiancare l’Amministrazione comunale negli interventi di disinfezione, disinfestazione e sanificazione per il ripristino dello standard ambientale.
Purtroppo so che la materia di queste specifiche competenze è molto dibattuta e che in tutta Italia Comuni e Aziende Sanitarie si rimbalzano le reciproche responsabilità giungendo perfino al Consiglio di Stato per dirimere ogni controversia del genere. Basta fare un giro del centro cittadino per osservare che, non solo gli escrementi hanno lordato palazzi e strade (poco male, si dirà, si tratta “solo” di imbrattamenti), ma costituiscono ormai un’emergenza igienico-sanitaria perché le spore degli escrementi favoriscono la proliferazione di parassiti quali zecche, pulci e acari che poi trasmettono malattie infettive all’uomo e agli animali domestici. I parassiti veicolano malattie, quali: salmonella, istoplasmosi (malattia che si contrae perlopiù a livello polmonare per inalazione), encefalite, psittacosi (con sintomi simil-influenzali che possono sfociare in polmoniti), influenza aviaria, escherichia coli (gastroenterite). E mi fermo qui.
Si badi bene: non è necessario che avvenga il contatto diretto con gli escrementi, basta che gli stessi – essiccati e polverizzati – vengano calpestati o spostati e poi trasportati da un semplice colpo di vento, agitati da ventilatori o importati da aspiratori. Perfino calpestando le deiezioni presenti sui marciapiedi possiamo veicolare batteri e virus portandoli sul pavimento di casa, esponendo così a gravi rischi i nostri bambini che spesso amano giocare per terra. Naturalmente questo vale per i virus e batteri di ogni genere, compreso il Covid-19 che stiamo ancora combattendo. Questo problema interessa ormai le comunità di moltissime grandi città (Milano e Venezia in testa), che adottano soluzioni diverse e disparate magari coinvolgendo Lipu, Wwf e Legambiente.
C’è chi ha installato reti e protezioni acuminate che impediscano il sorvolo e lo stazionamento su palazzi storici e monumenti (vedi Galleria Vittorio Emanuele II e Duomo a Milano) o ordinanze per vietare a fotografi e turisti di offrire cibo ai volatili nelle piazze più interessate (piazza Duomo a Milano, piazza San Marco a Venezia, etc.) limitando ma non riuscendo ancora a eliminare il fenomeno; c’è chi ha arruolato addestratori con i loro falchi per battute di dissuasione e deterrenza rivelatesi inefficaci per il risultato effimero conseguito (perché, dovendo limitare nel tempo la presenza del predatore, la preda poi torna, ricrea il proprio nido e riforma la propria colonia), e costose, ancorché contestate da animalisti e ambientalisti che lamentano disequilibri nel ciclo riproduttivo di tutti i volatili, nonché il pericolo che corrono gli stessi falchi volando sulle nostre città, sempre più attraversate da fili e cavi aerei.
In passato c’è stato perfino qualche sindaco guascone che ha autorizzato battute di caccia in pieno centro, per fare abbattere i colombacci sparacchiando a destra e a manca come nei villaggi del Far West. La strategia adottata invece da altri, e che mi sono sentito di suggerire amichevolmente al Sindaco, è quella di limitare farmacologicamente la fecondazione dei colombacci depositando sui davanzali e sui terrazzi delle abitazioni, sui monumenti e sui palazzi istituzionali, dei mangimi che contengano sostanze antifecondative, ovviamente coinvolgendo la Lipu e altre organizzazioni per concordare una strategia mirata e limitata nel tempo. Giova sapere che i colombacci hanno una vita media di circa tre anni e fanno mediamente due covate, di una o due uova per volta, tra marzo e novembre.
Basterebbe quindi effettuare questo intervento nei periodi indicati e limitarlo ad un solo anno, per rallentare la riproduzione e monitorarne l’effetto. Per onestà intellettuale va riportato però che la Lipu non vede di buon occhio questa soluzione, obiettando che il cibo messo in maniera indifferenziata a portata di tutti i volatili potrebbe essere ingerito da volatili in via di estinzione, finendo così per compromettere la riproduzione di esemplari che vanno invece protetti. Trovo tuttavia che tale rischio sia assai basso, dato l’uso quasi esclusivo che i colombi fanno di cornicioni, grondaie, palazzi e monumenti. Bisogna però tener conto che il colombaccio frequenta i luoghi abitati per la facilità di approvvigionamento del cibo che l’uomo volutamente o involontariamente lascia nell’ambiente (briciole, rifiuti, etc.), trascurando le più impegnative e pericolose incursioni nell’aperta campagna per procurarsi semi, bacche, radici e qualche piccolo invertebrato.
Questa facilità di procurarsi il cibo comporta però un apporto assai scarso di sale e di acqua (di cui esso ha invece bisogno in gran quantità), che sottopone a stress il sistema metabolico del volatile, accelerando così il suo ciclo riproduttivo. Ecco perché sembra di assistere a una vera e propria moltiplicazione di questi volatili. All’azione igienico-sanitaria e alla strategia di rallentare il ciclo riproduttivo da parte degli enti preposti, dovrebbero però unirsi i cittadini col loro senso civico, provvedendo a mantenere pulito il marciapiede davanti alla propria abitazione e al proprio passo carraio. Anche se la propria abitazione dovesse risultare sfitta da tempo. Soprattutto in questo caso. E se i cittadini non mostrano sensibilità nel farlo, il Sindaco potrà emanare apposita ordinanza che li obblighi a provvedere alla pulizia, così come fanno i sindaci del nord Italia in caso di nevicate o semplicemente per rimuovere la cacca di un cane.
Chi scrive, non abituato a usare pale e raschietti rompighiaccio, e certamente non abituato a vedere copiose nevicate al suo paesello, ogni inverno è costretto a impugnare la pala e a sgomberare la neve davanti alla propria abitazione. Non era abituato, ma ha imparato a farlo, pena il pagamento di una multa salata.
Mi è capitato, il 18 agosto scorso, di recarmi con mia moglie al Presidio Sanitario di Serradifalco (comunemente noto come Pronto Soccorso) per le necessità di un mio familiare. Appena entrati nell’androne che funge da sala d’aspetto (?), abbiamo notato che una delle due porte a vetri del lato opposto, pur essendo dotata di maniglioni antipanico, era spalancata verso un cortile interno. Guardando intorno ci siamo posti molte domande: perché quella porta era tenuta aperta? Perché non vi era alcun cartello che vietasse l’ingresso ai non addetti? Cosa ci facevano due grossi cespugli di capperi in bella mostra nel cortile di una struttura sanitaria preposta alla tutela dell’igiene e della salute pubblica? Qualcuno forse li coltivava? Cosa ci faceva poi un enorme vecchio recipiente in vetroresina con gli orli sfaldati in un’area presumibilmente concepita come via di evacuazione o esodo in caso di incendio, ma sorprendentemente non vietata al pubblico e alla mercé di bambini che potevano accedervi per gioco?
Perché quella via di esodo era ingombrata e non era segnalata da idonei cartelli come prescrive il D. Lgs. 9 aprile 2008 n. 81? Il dirigente sanitario e l’RSPP (Responsabile del servizio di Prevenzione e Protezione) sapevano che il cespuglio di capperi può attirare zecche e acari che trasmettono malattie infettive all’uomo? Sapevano inoltre che le fibre di vetroresina sono nocive per gli occhi, il corpo e per le mani, perché possono penetrare nella pelle e causare prurito, infiammazioni e ferite più o meno profonde? Sapevano che, tenendo aperta quella porta, un colpo di vento può trasportare la polvere cancerogena dei filamenti vetrosi (già sfaldati per vetustà del manufatto), e provocare – se inalata – danni ai polmoni anche a distanza di anni? Con questi interrogativi ho ritenuto, da semplice cittadino italiano, di dovere documentare con foto – davanti a testimoni – quanto avevo visto. Non ho fatto in tempo a rientrare nell’androne che sono stato raggiunto da una persona con mascherina sul viso, priva di cartellino di riconoscimento, che chiedeva chi dei presenti avesse scattato delle foto.
Era una donna e aveva accanto un uomo che in precedenza avevo visto aggirarsi in qualità di dipendente della struttura. Evidentemente, dalla finestra che dava sul cortile, qualcuno aveva visto e sentito. Ho prontamente risposto che ero stato io. La mia interlocutrice mi ha chiesto chi fossi, ma ho replicato che faceva bene lei per prima a qualificarsi, dopo di che avrei risposto. La donna si è qualificata come dirigente sanitaria della struttura, al che io ho chiesto le sue generalità, dopo di che ho declinato le mie. Mi è stato chiesto perché avessi fatto quelle foto e perché fossi entrato in un’area vietata. Sul perché delle foto ho risposto che, da semplice cittadino italiano, volevo documentare quanto avevo visto, aggiungendo che non vi era alcun cartello che vietasse l’accesso all’area e cartelli che vietassero di scattare foto. La signora ha preso atto della incontestabile realtà (ribadisco che l’assenza di cartelli è testimoniata da diverse persone presenti, nonché da tutti gli utenti che frequentano la struttura e che non hanno mai visto cartelli di divieto su quelle porte) e non mi ha saputo rispondere.
A quel punto ho invece posto a lei alcune delle domande che mi ero posto da solo al momento del mio ingresso. La signora ha risposto che era già stato tutto segnalato al suo ufficio tecnico e tutto era in ordine. Il giorno dopo sono tornato per ritirare la prescrizione medica richiesta il giorno prima e ho notato che stavolta, sulla porta di sinistra, era presente un cartello di divieto di accesso, fotocopiato in fretta e furia e apposto malamente sulla vetrata. Tutto era però rimasto come prima: la porta sempre aperta e “li macchi di chiappari” in bella vista. Sicuramente anche il recipiente deve essere rimasto ancora lì, ma – imperando ora il divieto di accesso – non mi sono permesso di entrare per verificare. Come nel noto proverbio, è stata quindi prestata l’attenzione sul dito che indicava la luna, a costo di tagliarlo, e non alla luna stessa. “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi” direbbe Tancredi, personaggio di gattopardiana memoria. Apparentemente, aggiungiamo noi.
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Non credo di dire nulla di originale se osservo che, specie in certe ore del giorno, la via Roma è sempre congestionata dal traffico veicolare, il cui flusso risulta ostacolato da soste di auto fuori dagli stalli previsti e da fermate di auto strategicamente predisposte a spina di pesce (“a cinchina” come diciamo noi) per raggiungere più da vicino il negozio desiderato. Dunque si vedono auto che si fermano davanti al tabaccaio, alla rosticceria, alla macelleria, al parrucchiere, al fornaio, al fruttivendolo, al fiorista, al supermercato bloccando così il flusso in un senso e nell’altro. Mi è capitato di vedere un mio conoscente, che abita a circa duecento metri dal centro, raggiungere in auto la via Roma e, a causa della mancanza di un parcheggio, vederlo poi parcheggiare in fondo alla via de Gasperi, accanto al campo sportivo.
Quando ci siamo rivisti in piazza gli ho chiesto se avesse avuto la necessità di caricare qualcosa in macchina e mi ha risposto che doveva solo andare all’ufficio postale: sono rimasto senza parole. Spesso, per non innervosirmi, preferisco fare il giro da via Crispi o da via Duca, a seconda del mio senso di marcia in uscita o in entrata da via Roma. Penso di non essere il solo e spero che tanti altri facciano come me. Quando si è costretti a stare in coda, dopo pochi minuti gli automobilisti inevitabilmente si spazientiscono e cominciano a suonare il clacson. Quindi, oltre a sentire il rumore assordante dei motori e respirare i gas di scarico, assistiamo ad un concerto in cui si associano tutti i “suoni” delle varie marche di automobili. Del resto è nota la propensione di noi serradifalchesi verso la musica.
In altre ore del giorno, quando il traffico veicolare scema un po’, ecco che spuntano i centauri, piccoli e grandi: motorini e moto di grossa cilindrata percorrono ad alta velocità la via Roma e la via Crispi con marmitte rese rumorose forse per conferire maggiore autorevolezza e aggressività a chi li guida. Involontariamente complice la ben nota carenza di personale nella Polizia Locale, e perfino nella Stazione dei Carabinieri. Bando all’ironia, queste mie segnalazioni nascono dal desiderio di veder diventare il mio paese come il più bel paese del mondo, perché non intendo cambiarlo con nessun altro. Proprio per questo mi permetto ancora di suggerire all’amico sindaco di rendere, almeno in alcune ore del giorno, la via Roma a senso unico, magari alternando il divieto per ogni senso di marcia nell’arco della giornata. Ad esempio, si potrebbero introdurre le seguenti fasce orarie di divieto: dalle ore 9,30 alle ore 12,30 in un senso di marcia e dalle ore 16,30 alle ore 19,30 nell’altro senso di marcia. Per scoraggiare poi coloro che amano il brivido della velocità, si potrebbero introdurre tre o quattro dossi artificiali di altezza adeguata allo smorzamento di velocità che si vuole ottenere (< 30 Km/h), ricorrendo a materiali resistenti e gommosi appositamente segnalati con pannelli fotovoltaici stand-alone per l’accumulo di energia.
Sarebbe inoltre utile predisporre due o tre passaggi pedonali segnalati, data la concentrazione di negozi. Comprendo che tutto ciò è impopolare, specialmente tra gli esercenti, ed ha un costo (in verità non elevato), ma ogni scelta finisce necessariamente per accontentare alcuni e scontentare altri. Bisogna valutare costi e benefici. Si tratta di scegliere però l’interesse prevalente: la salute, la sicurezza e la funzionalità o gli interessi di parte?
Per. Ind. Prof. SALVATORE MINNELLA
(Consulente Tecnico del Tribunale di Milano, n. 10365,
Collaudatore Opere Pubbliche Regione Lombardia, n. 1456,
Consulente di Infortunistica Stradale, R.N.P.A. n. 3546
Ordine dei Periti Industriali e Periti Industriali Laureati delle Province di Milano e Lodi, n. 4713)
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