di MICHELE BRUCCHERI – L’INTERVISTA. «Voce» al docente di Serradifalco che vive in Lombardia. Ha pubblicato «Strade sterrate» ed è un fiume in piena con La Voce del Nisseno
Docente in pensione da un paio d’anni, Salvatore Minnella – recentemente – ha pubblicato un libro intitolato “Strade sterrate”. Ottanta liriche, 112 pagine, volume intriso di delicatezza e profondità. Al microfono de La Voce del Nisseno (versione online) dichiara: “La poesia svolge un ruolo educativo, apre le coscienze”. Questo libro d’esordio è dedicato alla madre Teresina ed è arricchito di foto a colori. E nel corso della nostra lunga, feconda e interessante conversazione, l’autore di Serradifalco che vive in Lombardia apre il suo cuore e la sua mente generosamente. Si racconta e racconta con arguzia.
Classe 1954, sposato, padre di due figli, nonno di due nipoti, ha insegnato discipline tecnico-scientifiche in un istituto superiore. Consulente forense, il 2 giugno dello scorso anno è stato insignito della prestigiosa onorificenza di Cavaliere dell’Ordine “Al Merito della Repubblica” per particolari benemerenze acquisite durante la sua lunga carriera di docente.
Per Salvatore Minnella, la poesia opera per sottrazione di parole. Per lui, la poesia ti fa scavare. Poesia è creare, produrre. Poesia come acquerello. Poesia come tempere. Poesia come sculture. Per questo brillante e poliedrico artista, la poesia deve vedere ciò che non c’è. Per lui e concordo pienamente, la donna è già poesia. Per lui, inoltre, e sono perfettamente d’accordo, “bisogna saper ascoltare i giovani”. Indubbiamente la poesia racconta la vita. E lui, con grande energia intellettuale, dà “voce” al suo vissuto, ai suoi pensieri più intimi, alle sue veraci emozioni e ai suoi preziosi sentimenti.
Da poche settimane è uscito il tuo libro d’esordio intitolato “Strade sterrate”. Come si snoda questo itinerario poetico?
E’ un itinerario sentimentale e a tratti metafisico. Ha inizio idealmente, come ho già scritto nella introduzione, nelle strade effettivamente sterrate della mia infanzia e si evolve verso le strade metaforiche della vita, come a voler significare che ogni cammino umano va affrontato – come tutti i viaggi – con un appropriato bagaglio e con la consapevolezza di potere incontrare insidie e difficoltà. E’ un percorso che si svolge dall’infanzia all’età matura in compagnia della poesia, utilizzata come strumento per capire il mondo e le radici profonde degli uomini che lo popolano. La riflessione che vuole suscitare nei lettori è la seguente: chi affronta la vita ricorrendo a infingimenti e mefistofelici camuffamenti, mentirà sempre a sé stesso e agli altri; in poche parole non avrà un buon rapporto con sé stesso e sarà condannato all’infelicità, si illuderà di capire ed essere capito ma sarà sempre in compagnia di un falso sé stesso.
Sono ottanta liriche. Qual è il filo conduttore?
E’ la lenta maturazione dell’uomo attraverso l’esplorazione degli angoli più nascosti della propria anima, un dialogo introspettivo fatto con la consapevolezza della fallibilità dell’uomo e l’ansia di migliorarsi e riscattarsi sempre, cercando di spogliarsi del “sé” per gettare lo sguardo “oltre il sé”. Intendo la poesia come un filtro tra l’uomo e il mondo che lo circonda, tra uomo e uomo. La meditazione e l’introspezione ti mettono a nudo: sarai poi tu a rivestirti con gli abiti mentali che ti saranno più congeniali, per affrontare meglio il tuo viaggio di conoscenza e così comprendere il significato vero della vita.
A chi è dedicato questo tuo libro di poesie?
A mia madre, Teresa, che per tutti è stata Teresina. E’ il minimo tributo che io potessi darle. E’ stata per me, ma anche per la mia famiglia originaria e per chi ha avuto la fortuna di frequentarla e conoscerla bene, un esempio irraggiungibile di smisurata generosità umana. E quando parlo di generosità non intendo riferirmi alla mera elargizione materiale di doni cui si dedicava, ma alla disponibilità umana verso chi era ammalato o si trovasse in difficoltà. Chiunque bussasse alla sua porta, fosse un parente, persona comunque conosciuta o sconosciuta sapeva di poter trovare sempre un gesto di carità, un aiuto concreto e una parola di conforto…
L’ho conosciuta ed era veramente straordinaria…
Mia madre possedeva un forte senso della pietas, non solo intesa come pietà cristiana, ma nella sua accezione latina e, per così dire laica che implica empatia, immedesimazione, condivisione del dolore e della sofferenza. C’è un’altra espressione, àgape, che deriva dal greco e sta a significare l’amore disinteressato, talvolta smisurato che si ha verso gli altri. Lei possedeva questa rare qualità umane… sarebbe bello che qualche ministro di Dio, che pure conosce la dottrina teologica ed è supportato dalla vocazione sacerdotale, ne possedesse un pochino e ne facesse quotidiano esercizio… Ho un grande rammarico: quello di non avere potuto pubblicare il libro quando lei era ancora in vita.
Recentemente, nella tua Serradifalco è stato presentato il volume. Poco più di un mese fa. Come è stato strutturato il meeting culturale?
Grazie alla nota professionalità del giornalista Michele Bruccheri, intervenuto come presentatore e coordinatore dell’evento (e che in questo momento mi sta intervistando); alla critica letteraria del relatore pedagogista Prof. Carmelo Salvatore Benfante Picogna; alla bravura degli attori di teatro Giuseppe Minnella e Maurizio Venti che hanno declamato alcune poesie; al talento del pianista maestro Antonio Giardina e alla conosciuta bravura del chitarrista Giuseppe Cammarata, è stato realizzato presso la Sala Convegni del Palazzo Mifsud un evento culturale che, a detta di tutti, ha rappresentato una bella pagina culturale per Serradifalco…
Confermo, sebbene io sia di parte!
Puntuali e competenti gli interventi del presentatore e del relatore, appropriati i timbri vocali dei lettori delle poesie, mirabili le esecuzioni musicali che accompagnavano le declamazioni. La buona riuscita non era per niente scontata, data la difficoltà di organizzare un evento con l’autore che risiede in provincia di Milano! Eppure è stata una serata in cui la poesia si è trovata in perfetta sintonia con la musica. Unica nota stonata il caldo infernale che il pubblico, davvero attento e numeroso, ha sfidato per amore della poesia. Ho davvero apprezzato molto che così tante persone siano rimaste stoicamente sedute… a sventolarsi per circa tre ore.
Ti chiedo di donarci una lirica. Quale scegli per i nostri lettori digitali?
Ritengo che la più appropriata sia “La mia gente”. Eccola:
La mia gente è indomita e primordiale,
sofista, libera, essenziale.
La mia gente è orgogliosa e fiera
stupefacente, laboriosa e indolente.
La mia gente è generosa e diffidente,
fatalista, permalosa e litiga per niente.
La mia gente ha lo sguardo curioso di un bimbo
l’attenzione disarmata d’un anziano,
la rabbia di un giovane incompreso,
l’amorevole entusiasmo di una sposa,
la candida speranza di uno scolaro.
La mia gente non possiede verbi al futuro,
contesa tra passato, onore e dignità.
La mia gente non distingue ancora
le promesse dalla realtà,
la quotidianità dal futuro,
il vigliacco dall’eroe,
eppure è intelligente
ma non le serve a niente.
Nei mesi scorsi, hai presentato il libro anche a Legnano. Come è stata articolata l’iniziativa?
Sì, il libro è stato presentato il 25 maggio scorso nell’Aula Magna dell’Istituto di Istruzione Superiore Statale “Antonio Bernocchi” di Legnano, la scuola dove ho insegnato per 43 anni, nell’ambito della celebrazione del centesimo anniversario della sua fondazione che ricorre appunto quest’anno. Presentatore-relatore era il mio collega Prof. Giancarlo Restelli, docente di Italiano e Storia, scrittore che ha pubblicato numerosi saggi storici tra cui: “Auschitz, la barbarie civilizzata”, “Viaggio in un mondo fuori dal mondo”, “Le foibe e l’esodo giuliano-dalmata”, mentre le poesie sono state lette dalla mia collega Prof.ssa Marina Diegoli, docente di Italiano e Storia, e dalla mia amica maestra elementare Teresa Basilone, attive promotrici di iniziative culturali nel territorio legnanese. L’accompagnamento musicale è stato curato dal violinista maestro Claudio Bergamini con il suo giovane allievo chitarrista Ambrogio Carchen. La partecipazione anche lì è stata numerosa e l’evento ha avuto positivi consensi di pubblico e di stampa. Presenti alcune testate giornalistiche con i loro giornalisti (Legnano News, Sempione News, Il Giorno).
So che hai in preparazione un libro dialettale, sempre di poesie. Me lo confermi?
Esatto. Ho delle poesie in vernacolo serradifalchese e ti confermo la mia intenzione di volerle pubblicare in una prossima raccolta, ma non ti posso ancora anticipare i tempi in cui questo avverrà: spero entro l’anno prossimo.
Tu sei stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine “Al Merito della Repubblica” per particolari benemerenze acquisite durante la tua lunga carriera di docente. Cosa significa, per te, questo prestigioso riconoscimento?
Il riconoscimento di un percorso professionale compiuto sempre col massimo impegno e con costante dedizione, e di una parallela intensa attività di libera professione come consulente del Tribunale di Milano. Avendo insegnato per 43 anni nella stessa scuola, sono stato considerato il punto di riferimento per una moltitudine di studenti e per moltissimi colleghi. Quando, nell’ultimo collegio docenti del 16 giugno 2017, ho pronunciato il mio discorso di commiato di fronte a circa duecento colleghi, sono stato avvolto dalla commozione, dall’affetto e dalla stima dell’intero collegio docenti: questa semplice attestazione mi ha gratificato e già mi bastava.
Ma…
Quando però un anno dopo ho avuto in mano quella pergamena firmata dal Presidente della Repubblica, il mio primo pensiero l’ho rivolto ai miei genitori e poi alla mia Serradifalco, di cui mi sento perenne figlio. L’ho perfino detto pubblicamente. Successivamente sono stato intervistato da numerosi giornalisti ed ho preteso che sulle mie origini siciliane non si mantenessero nel vago, ma scrivessero che sono nato a Serradifalco, in provincia di Caltanissetta, altrimenti (ma l’ho detto scherzando) non avrei autorizzato l’intervista.
Hai lavorato per 43 anni nel mondo della scuola. Dal tuo “osservatorio” privilegiato, qual è la radiografia che tracci in merito ai giovani?
Non ho mai perso di vista che il ruolo di docente implica il concetto composito dell’educare, che in latino significa trarre fuori, allevare e condurre. Pertanto il docente non è solo chiamato a insegnare con competenza la propria disciplina cercando di tirar fuori il meglio da ogni studente, ma deve educare con l’esempio, l’attenzione e la coerenza. I giovani sanno benissimo distinguere l’autorevolezza dall’autoritarismo, possiedono un istintivo spiccato senso della giustizia, hanno infine bisogno di continui stimoli. Ho incontrato nella mia carriera molti cosiddetti ragazzi “difficili”: ebbene, nel momento in cui essi sembravano refrattari a ogni regola e disciplina, intimamente la richiedevano…
Continua.
Il docente non deve aver timore di rendersi impopolare imponendo rigore e disciplina, perché queste sono le precondizioni, le migliori garanzie affinché lo studente cresca acquisendo il rispetto verso gli altri, il concetto di lecito e illecito, di giusto e ingiusto. Stabiliti i binari (cioè le comuni regole della convivenza civile) entro cui la sua coscienza civile deve maturare, lo studente dovrà poi essere guidato affinché possa liberare la propria personalità e la propria creatività. A quel punto entrerà in gioco la capacità del docente di catturare l’interesse verso la materia insegnata. Solo se saranno state osservate le precondizioni di cui parlavo prima, ne conseguirà una crescita culturale e una coscienza civile in evoluzione. I giovani possono sembrare abulici e disinteressati, ma sono soltanto distratti e vanno motivati. Nonostante quel che si dica di loro io sono ottimista, perché credo vi sia in ogni giovane la naturale spinta a migliorare. La cosa che mi manca dei miei studenti è di non potere più leggere nei loro occhi ancora inesperti la curiosità del nuovo, i loro freschi pensieri.
Mi risulta anche un tuo romanzo storico, in fase di ultimazione. Quando lo pubblichi?
E’ un lavoro immane, perché si tratta di un romanzo ambientato nel 1860, dunque durante lo sbarco dei garibaldini, in una Sicilia piena di turbolenze, fermenti rivoluzionari e contraddizioni. Ha richiesto e tuttora mi richiede un lungo lavoro di ricerca per lo studio del parlato dell’epoca, dei costumi in uso, della caratterizzazione dei personaggi relativi a quell’epoca. Anche se la trama, i personaggi e i luoghi sono di pura fantasia, l’ambientazione storica è rigorosa. Quindi i tempi della sua pubblicazione non li posso ancora prevedere. Ti posso solo anticipare che, col pretesto di narrare l’epopea di una famiglia a cavallo di due secoli, il romanzo si incentra su un solo ruolo maschile e si sofferma sul ruolo di tre donne che, ciascuna a suo modo, si sono ribellate al conformismo delle diverse epoche in cui sono vissute ribaltando gli stereotipi femminili imperanti.
So che sei un onnivoro di libri. Ma chi sono i tuoi scrittori e filosofi preferiti? E perché?
Come ogni autodidatta, fin da ragazzino mi sono sempre “cibato”, come ogni omnivoro si ciba di tutto, di quelle letture in cui, in base all’età e alle mie intime sollecitazioni, trovavo risposta ai miei crescenti e mutevoli interessi. Volendo sintetizzare cito i più significativi, cercando di abbracciare stili e tempi diversi: naturalmente il sublime Dante Alighieri per l’universalità e purezza della lingua e Alessandro Manzoni per l’originalità dello stile linguistico; Marcel Proust e Luigi Pirandello per la loro profonda capacità di introspezione; Leonardo Sciascia per la capacità di sintesi, la lucidità intellettuale e l’impegno civile; Stendhal per la leggerezza e l’eleganza del narrare; Voltaire per la sua capacità di abbracciare tutti i generi letterari e filosofici; Piero Chiara per la sua capacità di affabulare; Dacia Maraini per la scrittura limpida e la capacità di trasmettere anche gli odori e i profumi; Carlo Emilio Gadda e Andrea Camilleri per la capacità di inventare una lingua. Mi fermo qui, perché l’elenco sarebbe assai più lungo.
E sul fronte filosofico?
Per quanto concerne i filosofi, naturalmente quelli immortali della Grecia classica e dell’antica Roma: Aristotele, Socrate, Platone, Cicerone e poi Cartesio, Locke, Montesquieu, Kant, Hobbes, Pascal, Rousseau. Anche qui l’elenco sarebbe ancora più lungo. Vedi, senza volerlo abbiamo dato delle coordinate per una biblioteca essenziale. Non mi hai chiesto dei miei poeti preferiti, quindi non farò alcun nome. Ma tu sai che sono tanti. Noterai che mancano scrittori dell’ultimo ventennio: francamente non mi interessano, perché si occupano prevalentemente di “gialli” e non di letteratura tout court, probabilmente perché puntano sul successo commerciale.
Quale poesia, di altri, avresti voluto scrivere?
Beh, sono tante e riguardano diversi autori, ma per brevità te ne cito tre:
1) di Jacques Prévert: “Tre fiammiferi accesi”
Tre fiammiferi accesi uno per uno nella notte
Il primo per vederti tutto il viso
Il secondo per vederti gli occhi
L’ultimo per vedere la tua bocca
E tutto il buio per ricordarmi queste cose
Mentre ti stringo fra le braccia.
2) Dal “Canzoniere” di Francesco Petrarca:
Pace non trovo e non ho da far guerra
e temo, e spero; e ardo e sono un ghiaccio;
e volo sopra ‘l cielo, e giaccio in terra;
e nulla stringo, e tutto il mondo abbraccio.
3) di Salvatore Quasimodo “Ed è subito sera”
Ognuno sta solo sul cuor della terra,
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.
La poesia, a tuo avviso, ha un ruolo educativo? Accennavi qualcosa prima…
La poesia è forse il primo anelito primordiale dell’uomo. Gli uomini primitivi, dopo una giornata di duro lavoro spesa per cacciare animali o per ricercare nuovi materiali per costruire utensili, sentivano il bisogno di incidere nelle caverne i loro graffiti per raffigurare scene di caccia, frammenti di vita quotidiana e perché no, desideri astratti e ancestrali. Penso quindi che questa primitiva comunicazione concettuale rappresenti il primo atto di libertà che l’uomo abbia conosciuto. Da questo punto di vista la poesia ha svolto e svolge un ruolo educativo, perché apre le coscienze.
Prosegui.
La poesia non è e non può dunque essere conformista. Dev’essere a volte sferzante e non accomodante (penso a Cecco Angiolieri, a Giuseppe Gioacchino Belli, a Trilussa ma anche a Baudelaire, Bukovski, etc.), ma sempre sincera e pungolo critico della società e dell’animo umano. A scuola, nonostante io insegnassi discipline tecnico-scientifiche del tutto estranee al mondo della poesia, intrattenevo spesso i miei studenti sul significato e l’importanza della poesia: dicevo loro che nella poesia si è veramente liberi perché l’uomo, ogni uomo, pur facendo parte di un gregge (la società), mette in atto lo sforzo di essere diversa pecora di uno stesso gregge. Ciascuno dovrebbe evitare l’omologazione, sia di pensiero sia di ordine materiale. Ad esempio, non assecondando il pensiero unico perché fa comodo e non ricercando spasmodicamente l’ultimo modello di cellulare, dell’abito griffato etc. sol perché ci fa sentire appartenenti ad una casta e non ci fa sentire a disagio.
Qual è il miglior complimento che hai ricevuto?
E’ antipatico dover parlare di sé con toni elogiativi. Ma non mi voglio sottrarre alla domanda. Tra i numerosi e se vogliamo rituali complimenti, vi è quello di un amico lombardo che mi ha detto: “Salvatore, tu sei quello che scrivi: scrivi come parli e parli come scrivi”, volendo con ciò sottolineare la coerenza tra la personalità dell’uomo e ciò che egli scrive. Bada bene, il mio amico non ha voluto esprimere un giudizio di valore (positivo o negativo), ma ha semplicemente detto che quando io scrivo non baro per compiacere chicchessia o me stesso. Per questo lo ritengo il miglior complimento, perché ha registrato semplicemente la mia onestà intellettuale.
Cosa pensi della Sicilia?
Potrei parlare per ore. Penso che sia la più bella isola della terra, resa però infelice da una classe politica impreparata, immatura e ancora lontana dai reali bisogni dei cittadini. Sarei però ingiusto se non associassi, nella mia analisi, anche la consapevolezza che il cittadino deve avere della “cosa comune”, ovvero quel forte senso della collettività e del bene comune che purtroppo vedo ancora latitare. Leonardo Sciascia diceva che la Sicilia e, di riflesso l’Italia, è “irredimibile”. L’affermazione era lapidaria, ma non disarmante, perché da illuminista qual era egli opponeva al pessimismo dell’istinto, che porta naturalmente allo scoramento e all’impotenza, l’ottimismo della ragione, ossia quella forza intellettuale e morale che agita le coscienze, spinge a non accettare compromessi e aiuta a sviluppare la capacità di condanna e critica verso una società fortemente violentata dagli interessi di pochi; una società da lungo tempo abituata a tollerare e ignorare comportamenti mafiosi o comunque incivili e levantini che, sia pur velati o sfumati, finiscono col sopraffare e danneggiare le persone oneste e l’intera collettività.
Concordo pienamente. Ma prosegui pure la tua minuziosa analisi.
Quando vedo giovani brillanti privi di lavoro (o impegnati in lavori che eufemisticamente definiamo lavoretti) oziare tra un bar e l’altro; quando vedo barattare la loro dignità con occupazioni poco remunerate (ma questo purtroppo accade anche in altre regioni); case che sorgono in posti dove non si può costruire, aggregazioni sociali che non vanno al di là dei club calcistici, concorsi truccati a beneficio di persone non meritevoli, docenze universitarie assegnate per nepotismo e non per meriti, quando sento le fatalistiche, rassegnate e sterili lamentazioni: “c’hamm’a fari…”, “’cca sijmmu e ‘cca hamm’a stari…” ho un moto di rabbia e comprendo bene perché molti giovani decidano di andar via dal Sud e dall’Italia. Come vedi faccio fatica a distinguere Serradifalco e la Sicilia dall’Italia. Sempre per citare Leonardo Sciascia, nel suo libro “La Sicilia come metafora” egli afferma che il peccato più grande per il siciliano sia di non credere nelle idee, anzi dice che non ne ha; il siciliano è convinto, egli aggiunge, che le idee non possano muovere il mondo. Questa sfiducia porta il siciliano a dire che il mondo non possa essere diverso da quello che è stato; ne è un plastico esempio l’espressione serradifalchese di fronte alle novità: “munnu ha statu e munnu jè”, come a voler sancire la staticità, l’immodificabilità di tutto. Poiché questa sfiducia nelle idee si è ormai proiettata nel mondo, egli considera la Sicilia appunto come metafora dell’Italia e del mondo.
È vero ciò che asserisci…
Rivelatore del nostro stato d’animo e della scarsa fiducia nel futuro (parlo da serradifalchese) è l’assenza di verbi volti al futuro: per dire farò, dirò, andrò noi diciamo “haju a fari”, “haju a diri”, “haju a ‘gghiri” insinuando già nella locuzione il forte dubbio che tutto ciò possa davvero avvenire. Occorre che una illuminata e coesa classe politica siciliana faccia una precisa scelta di campo promuovendo e incoraggiando una vera rivoluzione socio-culturale, per riaffermare i fasti delle nostre origini greche, per isolare la mafia e il malaffare dall’economia, dalla finanza e dall’imprenditoria. Occorre una classe dirigente che sappia attrarre capitali sani dal resto dell’Italia e dall’Europa, per non dire dal mondo. Le energie ci sono, manca la volontà e la consapevolezza che questa è la strada maestra.
Cosa occorrerebbe?
Occorre che si dia mano a infrastrutture agili e moderne che colleghino meglio il centro della Sicilia con il resto dell’Italia. Penso a nuove strade e autostrade, a nuovi ponti e nuovi tracciati ferroviari. E’ inconcepibile che il centro della Sicilia, ricco di monumenti e bellezze naturali, sia ancora privo di un aeroporto, e che per raggiungere in treno Agrigento da Catania e viceversa bisogna affrontare un viaggio su due/tre soli binari come nel selvaggio West. Gli stranieri che amano visceralmente la Sicilia non se ne fanno una ragione. Nell’isola di Creta, che ha un terzo della superficie della Sicilia ed ha un’estensione pari a quella delle tre province della Sicilia centrale (Agrigento, Caltanissetta, Enna), vi sono tre aeroporti. A Londra sono capaci di organizzare un evento di portata mondiale per visitare un solo dipinto, mentre noi in Sicilia non sappiamo valorizzare tutte le bellezze a cielo aperto di cui disponiamo. E’ davvero pazzesco!
Purtroppo è così!
Pensa quale impulso economico potrebbero avere le campagne agrigentine, nissene ed ennesi se sorgesse un aeroporto al centro della Sicilia con relative infrastrutture! Inoltre, perché l’antico sogno di costruire il ponte sullo stretto di Messina non si avvera? Perché, in assenza di infrastrutture, si preferisce non farlo costruire: intanto, dico io, facciamolo costruire; immediatamente dopo, se non si può fare contemporaneamente, penseremo alle infrastrutture. Al nord dicono “meglio piuttosto che niente”. L’avvento del Movimento 5 Stelle ha certamente dato uno scossone al vecchio modo di fare politica, ma è come aver disinfettato una grave infezione disponendo, in un deserto, della sola urina umana… Manca una visione globale, sia pure dialetticamente articolata, del futuro; una programmazione politica di lungo respiro che unisca tutti “gli uomini liberi e forti” verso un obbiettivo comune, per citare Luigi Sturzo.
Cosa pensi, in ultima analisi?
Penso che il modello di società da seguire, sostenuta da quel valore aggiunto che risiede nella cultura e nell’antica civiltà di cui la Sicilia è portatrice, sia ancora quello dei paesi scandinavi, anche se mi rendo conto che la mentalità mediterranea ostacoli questo processo di “coscientizzazione” che deve caratterizzare ogni cittadino. Il riscatto della Sicilia e del Sud in generale deve partire proprio dalla consapevolezza che l’amore verso il bene comune e il riconoscimento dei diritti vanno di pari passo con l’osservanza dei doveri, che costituiscono insieme il patrimonio e l’onere di ogni singolo cittadino. Chi mi conosce sa che le critiche che io muovo nascono dall’amore profondo che ho verso la mia terra, che vorrei migliore. Per questo auspico un nuovo umanesimo e una nuova civiltà.
Cos’è per te la felicità?
C’è una poesia di Eugenio Montale in cui egli descrive così la felicità: “Felicità raggiunta, si cammina / per te sul fil di lana./ Agli occhi sei barlume che vacilla,/ al piede, teso ghiaccio che s’incrina…” lasciandoci intendere che essa è un attimo talmente delicato, sfuggente e breve che può dissolversi facilmente come se non fosse mai esistito.
So che hai sperimentato…
Ho sperimentato che la felicità è davvero la cessazione della sofferenza, come ha scritto Schopenhauer. Io l’ho provata il 23 maggio 1999 quando mio figlio, dopo tre giorni di coma farmaceutico, resosi necessario a seguito di un bruttissimo incidente stradale, si risvegliò. Non avevo mai provato quella intensa sensazione: una incontenibile deflagrazione di gioia da spaccare la testa, il petto e le viscere. Cerco continuamente di alimentarla tutte le volte che rivedo mio figlio attivo e vegeto, mia figlia sorridente, mia moglie e i miei nipotini abbracciati magari mentre osserviamo insieme un tramonto sul mare o ci guardiamo semplicemente negli occhi.
A quali valori credi strenuamente?
Quelli classici: la famiglia, l’onestà, il lavoro, l’istruzione.
Concludiamo alla stessa maniera dell’evento che ho presentato a Serradifalco: scrivi un messaggio e inserisci il biglietto in una bottiglia, da lanciare a mare aperto. Quali sono le tue parole?
Si narra che il primo a lanciare in mare il proprio messaggio in una bottiglia, sia stato il filosofo greco Teofrasto nel 310 a.C. Quindi il gesto è antichissimo e per niente originale. Mi piacerebbe affidare al mare questo messaggio, una sorta di epitaffio che vorrei venisse scritto (più tardi possibile) sulla mia lapide: “Nacqui senza volerlo, vissi per necessità, sono morto mio malgrado”. Nel messaggio in bottiglia aggiungerei però una postilla: “P.S. Il mio indirizzo è il seguente….: nel caso in cui la bottiglia mi venisse recapitata quando sono ancora vivo. In tal caso avrò il piacere di brindare con chi ha ritrovato questo messaggio”.
MICHELE BRUCCHERI