L’11 luglio 2021 allo Stadio di Wemblay Stadium, situato nell’omonimo quartiere di Londra, ventitré officianti (undici inglesi, undici italiani e un arbitro olandese) – e qualche comparsa scappata agli steward – si presentano al centro della scena, davanti a più di 60 mila fedeli. Nello stesso momento, in tutte le parti del mondo, milioni di individui si trovano davanti ai televisori, “altari domestici della modernità”, per assistere e partecipare alla celebrazione del grande rito calcistico, la finale degli Europei.
Si alzano, gridano, strepitano e si rimettono a sedere seguendo il ritmo della folla che allo stadio indossa magliette bianche (la gran parte) o azzurre. Parafrasando l’antropologo Marc Augè (Football) è questo lo spettacolo che abbiamo ancora dinanzi agli occhi. Ma che cosa significa tutto questo? Perché anche le più alte autorità degli Stati partecipano al rito collettivo legittimandolo? Perché una gara sportiva per milioni di uomini e donne è così importante? Anche le antiche civiltà come quella egizia, greca, romana attribuivano alle gare un significato che travalicava quello sportivo.
Oggi il calcio è un vero e proprio fenomeno religioso in cui gli individui provano gli stessi sentimenti e li esprimono attraverso cori e ritmi di varia natura. Non c’è infatti molta differenza tra un insieme di fedeli che celebrano le principali festività e l’insieme di persone che assistono ad una partita del più popolare tra gli sport di massa. Il calcio costituisce un fatto sociale totale perché riguarda tutti gli elementi della società.
Ormai anche le nazionali più piccole, lo abbiamo visto nelle ultime edizioni, buttano il cuore oltre l’ostacolo pur di giocare con le grandi potenze calcistiche. Rimane indimenticabile ad esempio la danza degli Islandesi agli europei del 2016, il “Geyser Sound”, che è un vero e proprio rito religioso.
Oggi, nota Marc Augè, il senso dell’esistenza si costruisce “empiricamente” perché “siamo di fronte ad attività che sono sufficienti a dare senso alla vita, dal momento che danno forma sensibile e sociale alle aspettative individuali che contribuiscono a creare”. Ne sono un esempio i big match che hanno il compito di coinvolgere al rito anche quelli che sono divenuti tifosi della squadra soprattutto nella fase finale della competizione perché è quella che richiede quella identificazione che genera il senso di appartenenza.
Così gli stadi diventano un luogo di senso. Naturalmente anche di controsenso e di non-senso e qualche volta anche di raccapriccio per gli episodi violenti inscenati da minoranze di sconsiderati delle varie tifoserie. Ma la partita finale per i “fedeli” della squadra che uscirà vittoriosa è innanzitutto il simbolo di una speranza, della coscienza di appartenere ad un noi, a una comunità che ha bisogno della intelligenza, delle capacità, della solidarietà di tutti.
PASQUALE PETIX
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