L’ANALISI. L’intervento del sociologo Pasquale Petix: “L’aria che si respira è fumosa tanto da spingere la ‘Commissione antimafia’ a guardare con i suoi occhi su quel proliferare di carriere e fortune protette dall’ombra di una fraudolenta battaglia contro ‘Cosa nostra’”
Una volta dietro la parola “antimafia” c’era la rivoluzione culturale di un popolo che dopo le stragi degli anni ’90 aveva finalmente elevato il proprio cuore e la propria testa per dire no alla mafia. Ma oggi di questo movimento cosa ne è rimasto dopo che tante persone che nel corso degli anni prima si erano accreditate come simboli dell’antimafia, salvo ad un certo punto – conseguita la patente antimafiosa, per troppa sicurezza, per avidità – hanno fatto cadere la maschera e mostrare il loro vero volto?
L’antimafia con i “pennacchi” ha tradito la sincerità di chi per anni aveva creduto nella possibilità di riscatto di questa terra. Invece siamo schiacciati dalla pesantezza dell’infamia regalata dai “signori dell’antimafia con i pennacchi” ancora ad una Sicilia che non sa redimersi. Oggi il fulcro della problematica – come è stato scritto da autorevoli commentatori – è la categorizzazione dell’antimafia, come se si trattasse di un “circolo privato o di un club prestigioso con delle card speciali”.
Dentro quel club si sono accomodati imprenditori, politici, professionisti, magistrati, prefetti, giornalisti che avevano detto no alla corruzione, al racket, ma che avevano come retropensiero quello di fare carriera, coltivare interessi indicibili, amministrare i beni confiscati alla mafia, farsi assegnare anche una scorta come simbolo del prestigio e del potere conquistato.
Ora si è capito che bisognava fare una seria analisi della miticizzazione di chi denunciava, di chi diceva no alla corruzione, di chi creava associazioni antiracket, di chi andava a predicare nelle scuole e nelle chiese il credo antimafioso, salvo “coltivare il germe della mafia” dentro di sé.
E se c’era bisogno di un altro episodio, per ribadire la “frantumazione e l’autodistruzione dell’antimafia” che erode se stessa con le speculazioni e con gli interessi privatissimi dietro le bandiere della legalità e del contrasto alle cosche, ecco arrivare il caso Maniaci.
Non c’è dubbio che generalizzare è sempre un errore, ogni accusa deve essere provata in tribunale, ma i paradossi messi in luce dal “caso Maniaci” consentono di valutare l’intensità del terremoto che rischia di travolgere l’antimafia – anche quella onesta e disinteressata – che comunque esiste e vorremmo che avesse ancora motivi per continuare la sua missione educativa e di denuncia.
Certo, l’aria che si respira è fumosa tanto da spingere la “Commissione antimafia” a guardare con i suoi occhi su quel proliferare di carriere e fortune protette dall’ombra di una fraudolenta battaglia contro Cosa nostra. Un cortocircuito pericolosissimo quello della legalità agitato come un vessillo protettivo dai potenti che lucrano e creano legami con gli stessi intenti e i metodi della mafia, e che adesso diventa per la prima volta materia d’indagine per il Parlamento.
La Commissione antimafia ha iniziato il suo lavoro con una lunga serie di audizioni per approfondire limiti e contraddizioni di chi negli anni si è posizionato in prima fila nella lotta per la legalità: collocazione un tempo scomoda e pericolosa, ma che è diventata l’alibi per conquistare posizioni di potere, ad esempio, in Confindustria. Ormai sono tante le pentole che meritano di essere scoperchiate per capire quali veleni hanno cucinato. Questo lavoro d’indagine va comunque accompagnato dall’impegno per ridare significato alle azioni educative volte a rimettere dentro la coscienza delle nuove generazioni il desiderio di bonificare la Sicilia e l’Italia del malaffare. Del resto ciò che più offende le persone oneste – che durante la loro vita hanno dimostrato tutta la loro coerenza e sincerità nel contrastare l’illegalità e la mafia – è il fatto di essere sistemate nello stesso paniere che contiene le mele (marce) seppure con i pennacchi dell’antimafia.
PASQUALE PETIX