Raccontare in un libro biografico, una leggenda della musica contemporanea. È quello che ha fatto Paolo Borgognone nel suo “Freddie Mercury – The Show Must Go On” edito da Diarkos editore. Ne abbiamo parlato in esclusiva con l’autore che ci ha rilasciato questa breve intervista.
Paolo che significa parlare di Freddie Mercury oggi?
Significa ripercorrere le tappe della vita e della carriera di un grande personaggio, musicista e performer straordinario sul palco, ma cercando di indagare anche sull’aspetto privato, quella della persona oltre che del divo.
Mercury, lo sappiamo, non era il suo vero nome. Parlaci della sua infanzia.
Il vero nome era Farroock Bulsara, era nato a Zanzibar, una grande isola al largo delle coste africane che all’epoca faceva parte dell’Impero Britannico. La sua era una famiglia indiana, di religione Parsi, e infatti Freddie trascorse alcuni anni in India dove seguì delle ottime scuole, prima di arrivare, con i genitori e la sorella Kashmira, a Londra nel 1964.
Che ambiente trovò in Inghilterra?
Il 1964 fu un anno eccitante per il Regno Unito: era esplosa la Beatlesmania, le ferite della guerra si erano rimarginate, c’era un’aria nuova anche in politica con l’elezione a Primo Ministro di Harold Wilson. Londra poi era in fermento: movimenti culturali, sociali, la irripetibile stagione della Swinging London, con la sua rinnovata libertà di pensiero, azione, costumi. Freddie era giovane ed era una persona in grado di apprezzare tutto questo, nonostante pregiudizi e razzismo si trovassero ancora nelle pieghe della società. Si gettò a capofitto nella vita turbinosa della città mentre cercava di assorbirne ogni aspetto.
E aveva la passione per la musica…
Hai ragione. Passione e talento. Ci mise poco a entrare nel giro dei gruppi che tentavano la scalata al successo che sapeva sarebbe stato suo, prima o poi. Fece esperienza con qualche band senza futuro, poi entrò nei Queen – che allora si chiamavano ancora Smile – e da lì è iniziata una ascesa incredibile che ha portato i quattro musicisti a diventare un culto per milioni di fan in tutto il mondo. Merito anche della alchimia che si è creata tra loro, il batterista Roger Taylor, il chitarrista Brian May e il bassista John Deacon. Tutti fenomeni.
Quale è stato il segreto del successo dei Queen, a tuo avviso?
Il mix dei talenti appena nominati, certamente. Poi il coraggio di tentare strade nuove, percorsi musicali che fino a quel momento erano stati meno battuti, mischiando generi, suoni, voci in maniera incredibile. Basta ascoltare il successo più clamoroso dei Queen, “Bohemian Rhapsody”, un pastiche di suggestioni diverse, per rendersene conto. Una canzone incredibile anche per la sua durata, quasi sei minuti, in un mondo nel quale le radio – che la facevano da padrone – non volevano trasmettere brani più lunghi di tre minuti.
Abbiamo visto il film “Bohemian Rhapsody”, a te è piaciuto?
Un mio amico musicista ha commentato: “Quel film non ha bisogno di essere bello, bastano le canzoni”. Un poco ha ragione, ma credo che comunque – anche se sono stati fatti dei cambiamenti rispetto alla successione storica dei fatti – la pellicola in generale sia spettacolare e racconti bene i personaggi e lo sviluppo della carriera della band.
Poi è arrivato l’Aids. Molti hanno detto che era inevitabile visto lo stile di vita estremo di Mercury…
All’epoca – parliamo della seconda metà degli anni ’80 – l’Aids era uno stigma. Averlo significava essere giudicati e male. Si parlava di “peste degli omosessuali”, prima che la scienza dimostrasse che chiunque – se non accorto nei comportamenti – era a rischio. Mercury scelse di difendersi negando la malattia, anche quando questa era piuttosto palese, e ha dichiarato di esserne affetto solo subito prima della fine. Ma ha voluto che il suo nome fosse speso per la lotta ai pregiudizi e alla malattia. Una delle sue eredità più grandi, oltre alla musica immortale che ci ha lasciato.
Secondo te, oggi, c’è qualcuno come Freddie?
I musicisti bravi ci sono eccome, ne è pieno il mondo per fortuna. Ma come Freddie, no, non scherziamo. Lui era unico per la sua voce, per le qualità istrioniche, l’umanità del suo personaggio e il talento sconfinato che metteva in ogni nota. Per questo – a tanti anni dalla sua scomparsa nel 1991 – ne parliamo ancora e volentieri.
ILARIA SOLAZZO
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