Carissimo Signor Maestro…

volevo iniziare così, come usava fare nelle corrispondenze epistolari e nei temi scolastici di altri tempi, la lettera ideale al mio vecchio maestro. Voglio però allontanare questa tentazione retorica raccontando di lui come si fa di una persona amica, di cui si vuole conservare vivo il ricordo personale parlandone ad altri.

Salvatore Minnella (foto di Gioachino Divita)

Frequentavo nel 1961 la seconda elementare, quando il giovane maestro Salvatore Galletti subentrò alla maestra Muscarelli nella mia classe.

Il primo anno con quella dolce maestra era trascorso con molte ansie e qualche curiosità, senza però lasciare ricordi significativi. A partire da quell’anno invece, quell’uomo burbero e apparentemente scostante riuscì a calamitare l’attenzione di quegli impauriti bambinetti che vestivano un dignitoso grembiulino nero e portavano una cartella di cartone marrone: aveva personalità, sapeva affabulare, rendere facili i concetti difficili e, soprattutto, stimolare la nostra curiosità.

A marzo di quell’anno si era celebrato il centenario dell’Unità d’Italia e, sulla scia di quei festeggiamenti, egli ci fece imparare il Va’ pensiero di Verdi, che cantammo orgogliosamente davanti a una troupe della Radiotelevisione Italiana, comparto regionale.

In quell’occasione ci fece rappresentare, nell’ormai scomparso cine-teatro Nazionale, una commediola (scritta non so da chi), nella quale io impersonavo goffamente un Ispettore scolastico. Ricordo (e con me i compagni di allora) che l’anno dopo ci spiegò l’origine della fibra di seta facendoci “allevare”, grazie alla paziente assistenza della signora Maria (la bidella di allora), dei bachi da seta. Questa esperienza, da sola, gli valse la nostra incondizionata ammirazione.

Da lì in poi, in un crescendo di conoscenze e di stimoli, ci fece costruire degli orologi di cartone, ci introdusse alla filatelia e alla numismatica (da adulti avremmo poi capito che ci insegnava così ad assumere il metodo, il rigore, la precisione), gratificando di tanto in tanto i più bravi con qualche vecchio francobollo recante l’effigie di Re Vittorio Emanuele III o raffigurante i vecchi mestieri; o ancora, elargendoci qualche vecchia moneta da un centesimo, che custodiamo gelosamente.

Negli anni successivi avremmo poi appreso i primi rudimenti di botanica vivisezionando foglie, arbusti e fiori, dopo piccole escursioni fatte nel vicino Orto Piazza, allora ricco di alberi di ulivo, mandorlo, pesco, ciliegio, noce, bagolaro spaccasassi (a noi noto come càccamu), azzeruolo (azzalòru), melograno, melo cotogno e di altre piante arbustive.

In quarta o forse quinta classe, ci insegnò le percentuali e i tassi bancari e, per farci comprendere meglio l’aritmetica, creò una “sua” banca personale affidandoci dei libretti di risparmio dove annotavamo periodicamente i nostri piccoli depositi e… gli interessi che, manco a dirlo, pagava di tasca sua. 

Salvatore Galletti (foto di Salvatore Middione)

Ma quello che ci entusiasmò di più fu l’avere egli escogitato un sistema per allargare le nostre conoscenze linguistiche e intensificare così l’uso della lingua italiana nelle nostre abituali conversazioni. Egli sosteneva che, in quanto provenienti da famiglie modeste (perlopiù di minatori, contadini e artigiani), il patrimonio linguistico di quegli scolaretti era assai povero e si riduceva a pochissimi vocaboli appresi in qualche libro scolastico obbligatorio, giacché in nessuna famiglia vi erano libri da cui attingere conoscenze o persone colte che parlassero abitualmente in italiano.

Dunque ci fece acquistare un taccuino dalla copertina nera con fogli bordati di rosso, cioè la “libretta” che le famiglie usavano per andare a fare la spesa a credito, e ci sguinzagliò nei pomeriggi primaverili al Quadrato o per le vie centrali per importunare il geometra, il perito minerario, l’avvocato, il professore, il medico, il farmacista… per chiedere o carpire qualche dettaglio della sua professione e annotare quei termini, quei vocaboli a noi sconosciuti.

Inoltre ci incoraggiava a leggere i fumetti dell’epoca (Blek Macigno, Capitan Miki, Zagor, Topolino, Tex Willer, etc.) e annotare le poche modeste pubblicità affisse sui muri del paese. Questo gli permetteva poi in classe di spiegarcene i significati, organizzarli sintatticamente e grammaticalmente facendoci consultare il vocabolario: un “oggetto” sconosciuto che avremmo poi incontrato con piacere nella biblioteca comunale, da lui fortemente voluta e di cui sarebbe stato il primo competente e appassionato bibliotecario.

Era un comunicatore nato, un “agitatore” culturale, uno spirito libero, un pedagogo e un vero maestro, inteso nel suo alto significato di magister. Erano quelli gli anni del pionierismo culturale di pochi preparati maestri nelle scuole e Serradifalco entrava a fatica nel cosiddetto boom economico, ma lasciava ancora dietro di sé lunghi strascichi di analfabetismo.

Nelle campagne si organizzavano i corsi popolari, i cosiddetti corsi CRACIS per i contadini sparsi nei villaggi e nelle frazioni. Con la Legge n. 1859 del 31 dicembre 1962 veniva varata la Scuola Media Unificata, con cui si sanciva la fine della Scuola di Avviamento. Il 22 novembre 1963 sarebbe stato assassinato John Fitzgerald Kennedy suscitando in tutto il mondo un indicibile sconforto.

Sugli schermi dei pochi televisori allora presenti a Serradifalco appariva il maestro Alberto Manzi che, nella rubrica “Non è mai troppo tardi”, insegnava mirabilmente agli analfabeti la magia della lingua italiana disegnando con un carboncino nero oggetti, animali, paesaggi che poi inseriva in un contesto di parole e frasi. Ecco: se io oggi dovessi distinguere queste due figure, non saprei farlo, talmente esse mi appaiono simili e sovrapponibili.

Li definirei invece degli “intellettuali del popolo”, non nel senso della loro estrazione, ma perché il loro magistero era quello di far crescere culturalmente un popolo di sfortunati e affrancare i bambini di modesta estrazione sociale dall’ignoranza.

Ricordo ancora il maestro Galletti con la giacca adagiata sulle spalle, all’affacciarsi delle prime giornate calde, avanzare col viso accigliato e assorto in chissà quali pensieri, mentre si avvicinava ai suoi alunni con incedere lento ma deciso. Ricordo quel suo gesto abituale di impugnare con la mano destra il braccio sinistro dietro le spalle: sembrerà strano, ma quel gesto mi dava la misura, il segnale che l’estate stesse davvero arrivando.

E quel gesto si è perpetuato, di anno in anno, nelle lunghe passeggiate estive che da adulto avrei fatto con lui, che mi onorava della sua amicizia. Infatti, dalle elementari in poi, egli è stato per me un cardine della mia formazione civile e culturale e non l’ho mai dimenticato, nonostante io manchi dal paese da moltissimi anni. Fin dai miei primi infantili componimenti poetici ho sempre trovato in lui un critico attento, un mèntore paziente e scrupoloso e perfino umile quando si trattava di ascoltare il mio punto di vista. 

Copertina della monografia di Michele Bruccheri

Mi chiamava ancora “Totuccio” ed io lo chiamavo ancora “Professù”. Non c’era estate che non ci incontrassimo per passeggiare, bere un caffè o sorbirci una “mezza” granita. Nella sua personale Peripato, delimitata dal Quadrato di Piazza Vittorio Emanuele, da Via Roma, Corso Garibaldi, Via Duca, Via de Gasperi e Via Vittorio Veneto lo ascoltavo come un tempo e poi ci scambiavamo accese opinioni politiche e discutevamo di amenità; ma le nostre discussioni più appassionate erano incentrate sulla letteratura e sulla filosofia.

In qualche occasione gli avevo rimproverato le sue posizioni politiche talvolta discutibili e controverse e di non avere “osato” vivere in città come Roma o Milano, dove egli avrebbe certamente avuto il successo che meritava; gli ricordavo la frase con cui Leonardo Sciascia era solito rispondere a chi gli rivolgeva la stessa domanda: “In provincia si soffre di precocità ritardata”.

E gli dicevo che quell’ossimoro racchiudeva anche la sua personalità e la sua esistenza culturale: talento precoce, sensibilità e profondità culturale però ritardati, soffocati dal vivere, dallo stare rintanati nella rassicurante provincia siciliana.

Ritengo quindi che noi, oggi, siamo chiamati a correggere proprio quella tendenza che vede la nostra comunità come sonnacchiosa ed irriconoscente dea dei talenti precoci. Non è pensabile che un pedagogo, educatore, letterato, pensatore, saggista, poeta, valente pittore quale egli è stato sia oggi dimenticato dalla comunità che ha tanto amato.

Serradifalco ha il dovere morale di tributare all’autore di Patologia al Decameron e all’ideatore della nota collana di storia serradifalchese (che ha donato a noi tutti l’orgoglio e la consapevolezza del nostro passato), il giusto riconoscimento intitolandogli un centro studi, dedicandogli una strada o erigendogli un busto. Penso che questo rappresenti il tributo minimo per ricordare una persona davvero importante sia per la letteratura, sia per la memoria collettiva della comunità serradifalchese.

Sono inoltre convinto che egli ha lasciato un ricordo indelebile in chiunque abbia avuto la fortuna o soltanto l’occasione di conoscerlo. A noi, vecchi alunni che l’abbiamo avuto come maestro, egli ha invece lasciato una sorta di imprinting, un “credo” di contenuti educativi, didattici e culturali che ci rende riconoscibili tra noi: in particolare, un’apertura mentale e un amore per la cultura non disgiunti dal senso critico e dalla passione civile.

Spero che nella sua produzione letteraria e nel suo impegno sociale i giovani di oggi sappiano individuare il senso del suo magistero e trarre quella spinta ideale capace di farli progredire e proporsi come validi attori di una classe dirigente caratterizzata dai valori di onestà e impegno. A me non resta che salutarlo idealmente, con affetto e riconoscenza, anche a nome di tanti altri suoi vecchi alunni: grazie e addio signor maestro, addio amico maestro, penso che lei abbia trovato anche lassù un tempio di Apollo Licio, un’altra Peripato dove intrattenere altri discepoli.

SALVATORE MINNELLA

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