di PASQUALE PETIX – L’ANALISI. “L’economia e la finanza sono diventate autoreferenziali, fine a se stesse. Non sono orientate alla produzione, al lavoro, al benessere comune”

Prima di parlare della solidarietà occorre fare un passo indietro per fare mente locale sulle caratteristiche della società all’interno della quale oggi si svolge la nostra vita. E’ chiaro che qui non porto solo il mio pensiero, ma anche quello che dicono, osservano i più importanti studiosi della società.

Le società mutano, in bene o in male, perché le ragioni, le cause dei cambiamenti sono tantissime. Ad esempio la crisi, da cui non riusciamo ad uscire fuori, è iniziata negli Stati Uniti nel 2006/7; è arrivata in Europa nel 2007/8. Una crisi economica e sociale molto diversa da quelle avvenute dagli anni sessanta in poi. Per dire la crisi del 1968, quella della contestazione giovanile, per citarne una, è stata una crisi dialettica perché era nata dall’antagonismo, dal conflitto tra gruppi sociali (operai e giovani da un lato, i possessori dell’autorità e del potere economico/politico dall’altro). Un conflitto che aveva preso corpo all’interno di una società che da contadina si stava trasformando in industriale ma che conteneva, al proprio interno, i germogli o le forze che avrebbero permesso di superare la crisi in termini di progresso, di crescita economica e culturale.

Ben inteso non esistono società perfette. 

In quella fase, per dire, era nato il terrorismo. L’Italia degli anni ’70 e ’80 non era affatto perfetta, ma c’era la convinzione, l’idea generale che ci sarebbe stato un futuro migliore per tutti e soprattutto per le nuove generazioni. Era una società attraversata dalla speranza. Oggi questa convinzione è molto, molto debole. Il futuro appare precario, addirittura più precario del presente. Insomma, le aspettative, il sentimento generale non è positivo. Per questo, dice ad esempio il professor Zamagni, che la crisi attuale si può definire una “crisi entropica” ovvero caratterizzata da uno stato di disordine che tende a far collassare il sistema, che rischia di far implodere il sistema sociale, senza modificarlo in profondità e in meglio. Questa tipologia di crisi si genera ogni qualvolta la società perde il senso. La collettività non trova la direzione, non ha una meta chiara da raggiungere. E’ palesemente disorientata.

Il contesto e gli anni colpiti da questo tipo di crisi produce un pensiero collettivo “caotico” e una grande labilità emotiva. Aumenta l’intolleranza, i comportamenti diventano più impulsivi, più irrazionali, più arroganti. Le finalità della convivenza sociale vengono quasi smarrite. Qualunque evento può distrarre dalle responsabilità collettive. Per contro si esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi. La verità è che il flusso del pensiero appare disorganizzato, appunto, caotico. Come se una persona venisse colpito da una crisi psicotica e quindi il suo stato mentale gli propone  una percezione alterata della realtà.

Ora, se il disturbo è transitorio, il soggetto recupererà tutte le sue funzioni mentali e capirà come gestire la sua vita. Ma sarà il tempo a confermare se l’evento è da considerarsi o meno un episodio isolato. Fuori dalla metafora psichiatrica, si vuole chiaramente dire che oggi c’è chi attizza il fuoco dell’intolleranza in modo irresponsabile, cavalcando paure che nel ‘900 hanno prodotto due guerre, il nazismo, le leggi razziali, l’olocausto. E non bisogna mai dimenticare le lezioni della storia. E’ chiaro che se si vuole cambiare registro occorre un paradigma, un modello antropologico diverso. Per esempio l’idea che il mercato dev’essere abitato solo dall’interesse economico ha prodotto i disastri che sono sotto gli occhi di tutti.

L’economia e la finanza sono diventate autoreferenziali, fine a se stesse. Non sono orientate alla produzione, al lavoro, al benessere comune. La prova è che la povertà è aumentata. Le disuguaglianze sono aumentate dappertutto. La gente non riesce a curarsi come avrebbe diritto. Il lavoro è divenuto sempre più precario. I paesi siciliani si stanno svuotando, perché i giovani se ne vanno a Milano o dove pensano di realizzare il loro progetto di vita. E nello stesso tempo abbiamo il fenomeno dell’immigrazione africana o medio-orientale. Inoltre vi è la questione dei profughi, di chi scappa dalla guerra, dalle dittature. Nel mondo oltre 1 miliardo di persone non ha accesso all’acqua; un altro e mezzo vive con un 1 euro al giorno. Queste sono le contraddizioni che abbiamo dinanzi e alle quali oggi non sappiamo dare una risposta. 

Fino all’avvento della globalizzazione, avvenuta circa quaranta/50 anni fa, l’economia di mercato era un’istituzione “tendenzialmente” inclusiva ossia cercava di includere tutti coloro i quali avevano possibilità e capacità lavorative, anche gli immigrati. Con la globalizzazione l’economia di mercato è diventata uno strumento escludente nel senso che elimina tutti coloro che per natura fisica, etnica, religiosa non sono capaci di generare un aumento di produttività. Proprio Papa Francesco, con grande lucidità, invita a combattere contro la cultura dello “scarto” per ricostruire una società che sappia “includere” a partire dal recupero del valore della “solidarietà”.

La solidarietà può essere il motore nuovo di una società che non vuole implodere per effetto di un deficit di generosità o per paura della diversità. Piuttosto che incentivare la riottosità individuale e sociale, l’educazione dovrebbe coltivare la fiducia, la gratuità, la reciprocità, il senso di responsabilità. Senza questi pilastri una società crolla. E se questi pilastri (culturali e psicologici) non vengono sorvegliati, controllati e curati da chi ha responsabilità educative (e la politica ne ha tante), finiscono per collassare come i pilastri  del ponte di Genova.

PASQUALE PETIX

(Sociologo e docente universitario)

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