Per certi politici e per i loro vassalli, la sanità in Sicilia rappresenta un vero “bottino di guerra, occasione per vantaggi economici e rendite personali”. Sullo sfondo del lavoro faticoso, risoluto, prezioso di migliaia tra medici e operatori sanitari che garantiscono ogni giorno la salute dei siciliani, emerge il comportamento irridente e opportunista di chi ha l’obiettivo preciso di alimentare le varie clientele che, come orde fameliche, si lanciano all’assalto dei 10 miliardi previsti per la sanità (ovvero la metà del bilancio regionale).
Questo emerge dalla relazione che ha chiuso l’Inchiesta sulla sanità siciliana (sottotitolo: Le interferenze della politica e gli aspetti corruttivi) approvata dalla Commissione Antimafia ARS presieduta dall’On. Claudio Fava. L’inchiesta ha provato a mettere in luce due aspetti fondamentali: “Il primo è la trasparenza della spesa sanitaria e quindi la valutazione dell’efficacia dei meccanismi di controllo, mentre il secondo la legittimità o meno delle interferenze della politica nella gestione della sanità siciliana, spesso legata alla produzione del consenso in chiave elettorale”.
Siamo in presenza di un ritratto “impietoso e sconsolante” di vent’anni di inchieste, di scandali, di corruzioni, di clientelismi e carriere costruite ad arte. Al vertice di tutto la nefasta ingerenza politica, del tutto avulsa da logiche meritocratiche, delle procedure di designazione dei direttori generali delle Aziende Sanitarie e Ospedaliere siciliane.
L’indagine dell’Antimafia ha il merito di situare storicamente i fatti che restano confinati nell’ambito della cronaca nera quotidiana e che, in ragione dei tempi slargati della giustizia, facilmente entrano nell’oblio generale. Invece la memoria e la mente dovrebbero stare sempre in allerta per cercare di contrastare il malaffare che si insinua nei gangli vitali della società e delle istituzioni che dovrebbero assicurare la tutela della salute ai cittadini.
Al di là delle vicende che sono legate alla pandemia – per esempio gli affidamenti di natura fiduciaria (a centinaia verso i professionisti) costate diverse decine di milioni di euro (ma si sa in tempi di Covid sotto “l’emergenza” si può fare di tutto: le decisioni vengono commissariate: “Così Musumeci commissario anti-Covid spenderà i 128 milioni: fondi per 31 ospedali”. Al di là di queste minuzie (sic!), dicevo, a colpire c’è – ad esempio – il caso emblematico delle dialisi.
Nel 2016 la Direzione Distrettuale Antimafia di Catania e il Comando Provinciale della Guardia di Finanza con l’inchiesta “Bloody Money 142” denunciarono il “dirottamento” di pazienti dializzati dalle strutture pubbliche a quelle private. Il tutto – secondo gli inquirenti – attraverso l’azione di medici compiacenti, generata da pratiche corruttive. Proprio sul business dell’emodialisi, secondo una pista investigativa del 2014, pare che abbia messo gli occhi anche il latitante Matteo Messina Denaro. A proposito delle dialisi ecco cosa ha riferito l’ex direttore generale dell’ospedale “Papardo” di Messina, il dottor Michele Vullo alla Commissione Antimafia:
VULLO: Forse è il settore più paradigmatico della sanità siciliana nel senso che è in grado di rappresentare quello che accade all’interno di tutto il mondo della sanità. Partiamo da alcuni dati. Noi abbiamo in Sicilia 117 centri di dialisi, soltanto 31 sono pubblici, tutto il resto è privato. Questo potrebbe anche significare poco se non lo leghiamo ad altri dati: abbiamo 900 cittadini siciliani dializzati ogni milione di abitanti. La media nazionale è di 700. Duecento in più, ovvero il 25% in più. In un Paese normale questo sarebbe un campanello d’allarme.
FAVA: Sul piano epidemiologico?
VULLO: Esatto! Perché i siciliani hanno una percentuale di dializzati del 25% in più rispetto la media nazionale? Ma c’è un altro elemento che, a mio avviso, è drammatico: i siciliani vanno in dialisi otto anni prima della media nazionale. Per capirci, se nel resto del Paese un cittadino entra in dialisi a 78 anni, un cittadino siciliano ci va a 70. A questo si aggiunge un altro elemento: la Sicilia è in coda ai trapianti di rene… C’è un altro elemento che dà idea di qual è il fenomeno: le strutture pubbliche che si muovono in maniera adeguata per fronteggiare la richiesta dei dializzati vengono in genere, come dire, depotenziate o addirittura punite. Io vengo dall’esperienza del “Papardo” di Messina dove c’è una nefrologia con dialisi pubblica il cui responsabile è un medico che non fa attività privata all’esterno, non ha interessi all’esterno e io avevo previsto nel piano aziendale una struttura complessa con 15 posti letto tra nefrologia e dialisi… Bene, quella struttura indicata come “complessa” oggi è stata declassata a “struttura semplice”. Quello che si vuole è che i medici di qualità vadano via. Il depauperamento dei reparti di nefrologia delle strutture ospedaliere rappresenterebbe un buon viatico per fare carriera. E gli interessi della politica in questo settore sono piuttosto corposi… È chiaro che c’è un sistema in cui la presenza della politica non è indifferente perché molti centri privati sono di politici: politici a livello regionale, a livello nazionale… Per cui diventa difficilissimo intervenire cercando di potenziare la struttura pubblica rispetto a quella privata.
«Quod erat demonstrandum».
PASQUALE PETIX
(Sociologo e docente universitario)
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